Paolo Pelle
intervista, Storie e News

Oggi ne parliamo con… Paolo Pelle

Paolo Pelle, infermiere Antea, ci ha parlato dell’assistenza a domicilio e di che cosa significhi per lui entrare ogni giorno nelle case dei pazienti e dei loro familiari.

Da quanto lavori come infermiere in cure palliative? Conoscevi già Antea?

Lavoro ad Antea dal 2009 e ho sempre prestato assistenza a domicilio. Conoscevo già questa realtà da quando anni prima una persona a me cara aveva ricevuto assistenza: avevo potuto vedere con i miei occhi il metodo di lavoro che viene adoperato e il livello delle cure che vengono prestate.

Cosa distingue l’assistenza a domicilio da quella in Hospice?

Siamo un’équipe e come tale siamo continuamente interconnessi, ci confrontiamo sulle situazioni che gestiamo ogni giorno.

Nell’infermiere a domicilio i pazienti e i familiari riconoscono un punto di riferimento che va molto oltre l’ambito sanitario. Dopotutto loro ci aprono le porte della loro casa ogni giorno, diventiamo una presenza costante nelle loro vite: quando capiscono che possono fidarsi, ci raccontano tutto, si aprono e ci confidano le loro paure.

Le prime visite sono importanti perché il paziente e la sua famiglia sappiano che siamo lì per aiutarli e per fare un percorso con loro.

Quanto è complicato emotivamente il tuo lavoro?

Non c’è un’università che insegni a entrare nelle case delle persone, anche perché ognuna di loro ha i propri tempi per elaborare la situazione. Una famiglia si trova a dover affrontare continui scossoni che ne logorano le energie e che possono metterla in crisi.

In uno scenario del genere è fondamentale per me rimanere un punto fermo, non farmi sopraffare dalle emozioni. Io e i miei colleghi non ci focalizziamo sulla prospettiva della morte, ci interessa far vivere bene la vita, il tempo che resta.

Com’è il rapporto con i caregiver?

All’inizio i familiari dicono di non voler disturbare, poi capiscono che possono contare su di me: come dico sempre, è meglio una telefonata in più che una in meno, così si evitano difficoltà che poi diventano difficili da gestire.

È vero quel che si dice, che quello che dai ti ritorna: le famiglie sensibili si accorgono subito di chi sei, se sei uno che guarda le lancette dell’orologio o uno che si dedica con cura e attenzione alla persona che ha davanti a sé.

Dopo qualche visita, sentono che sono una persona e non solo un operatore sanitario: in questo aiuta il fatto che a domicilio non indossiamo divise.

Come si esprimono la fiducia e la stima che ripongono in te i familiari dei pazienti?

Faccio un esempio risalente ai miei inizi come infermiere. Feci le prime due visite a un magistrato, una persona quindi istruita che era del tutto consapevole della sua situazione.
Alla terza visita mi ha preso da parte e mi ha detto: “
dimmi quanto tempo ho”. Dopo che gli ho detto le cose come stavano, la moglie mi ha chiamato arrabbiata perché quel giorno lui si era chiuso in se stesso. Come ha capito il giorno successivo, a suo marito era solo servito prendersi del tempo per elaborare e fu proprio da questa presa di coscienza che poté cominciare a riprendere in mano la sua vita: è uscito, ha ricominciato a vedere gli amici, ad andare al mare… Da allora la moglie mi scrive almeno una volta l’anno per ringraziarmi.

Cosa si capisce dell’umanità entrando nelle case delle persone?

Sono sempre stato affamato delle storie delle persone! Nella fragilità si diventa più umani e più veri, le differenze sociali si dissolvono, si è un po’ tutti uguali di fronte al dolore.

La sofferenza ti fa crescere e maturare: qualsiasi sia il tuo punto di partenza, sicuramente diventerai un essere umano migliore di com’eri prima.

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