Oggi ne parliamo con… Giusy Marchi
Giusy è una delle psicologhe Antea e ci ha spiegato perché il suo approccio con i malati inguaribili sia del tutto diverso rispetto a quello che hanno i suoi colleghi con altri tipi di pazienti. E ci ha raccontato cosa significhi per lei fare questo mestiere proprio ad Antea!
Nell’immaginario collettivo è diffusa un’idea di psicologo abbastanza formale. In cosa consiste invece essere psicologa in cure palliative?
I metodi di indagine e di colloquio sono molto meno rigidi, più soft. Si evita di scandagliare troppo in profondità il vissuto della persona malata, che è già fragile per il presente che sta vivendo.
L’approccio è umano, molto spontaneo, caldo, mirato a capire cosa il paziente sente nel qui e ora, cosa lo fa stare male, i rapporti con la sua famiglia. Per fare un esempio, in questo tipo di rapporto non è necessario che io prenda appunti. Quando i pazienti mi vedono arrivare, sanno già che li aspetta un’interazione fatta non solo di parole, ma anche di sorrisi, abbracci e carezze!
Cosa significa per te fare la psicologa proprio ad Antea?
Ho avuto chiaro fin da ragazza che avrei dedicato la mia vita ad aiutare gli altri: se qualcuno intorno a me stava male, ero pronta a fare di tutto per alleviare la sua sofferenza.
Trent’anni fa ho avuto la fortuna di trovare in Antea il luogo migliore in cui mettere in pratica questa mia inclinazione. Posso dire che il mestiere di psicologa è il più bello del mondo, se avessi a disposizione più vite lo sceglierei ogni volta! Ma sarebbe riduttivo dire che questa sia una professione: la definirei piuttosto una vocazione, qui ho potuto stabilire tanti rapporti di sostegno con i pazienti e i loro familiari e un’ottima collaborazione con i colleghi.
Come si sviluppa il supporto psicologico nel corso della permanenza del paziente in Hospice?
Vengo consultata subito dopo la presa in carico e vengo coinvolta dai colleghi oppure dai familiari, è raro che la richiesta venga fatta in prima persona dal paziente. Il tipo di supporto che fornisco richiede che il colloquio si svolga nella stanza dell’assistito; a volte se c’è la giusta privacy può essere fatto anche fuori nel nostro bel giardino!
Solitamente come viene espresso dai pazienti il fatto di vivere in una condizione di sospensione?
In loro è presente una latente preoccupazione, che spesso si tramuta in angoscia, soprattutto quando diventano consapevoli di cosa sta accadendo loro. In quanto psicologa posso solo far capire loro che la situazione è critica, ma spetta sempre al medico informarli.
Ti va di raccontarci un episodio a cui sei affezionata?
Voglio ricordare Giuseppe, una persona che all’inizio si aspettava di tornare da un momento all’altro alla vita di prima: quando è entrato in Hospice stava bene, è rimasto per 7-8 mesi, un periodo abbastanza lungo.
A un certo punto il medico ha dovuto spiegargli che la sua malattia si era aggravata. Sul momento è rimasto destabilizzato e con me si è abbandonato al pianto, poi però ha apprezzato che gli fosse stata data la consapevolezza, che gli sarebbe poi servita per vivere degnamente il tempo che gli rimaneva.